L’accordo franco-tedesco siglato il 9 dicembre a Bruxelles rappresenta, nonostante i facili entusiasmi manifestati qua e là, un duro colpo e senza precedenti all’idea europea per come è concepita da molti a sinistra. Se non verranno rapidamente prospettate delle alternative all’instaurazione dura e pura di una politica di austerità di lungo periodo, frutto di una lettura parziale dei recenti eventi,possiamo ragionevolmente temere che quest’idea d’Europa si avvii al suo declino nell’opinione pubblica. Ritenere infatti che la crisi dell’Euro sia dovuta unicamente al non rispetto di una disciplina comune, significa offrire una lettura riduttiva. Il rispetto scrupoloso del patto di stabilità e di sviluppo da parte di paesi in grande difficoltà quali l’Irlanda ela Spagna, dovrebbe farcene prendere coscienza. François Hollande, annunciando di volere riaprire i negoziati sul suddetto accordo, ha dimostrato di avere capito la grande portata dell’attuale sfida, sia diplomatica sia economica e di avere preso coscienza del fatto che la sinistra europea non potrà più, pena la sua scomparsa, ripercorrere la strada imboccata a suo tempo da uno zapaterismo che, per preoccupazione di consenso, non esitò a sostenere la candidatura di Barroso. Senza dubbio i margini di manovra saranno ristretti, ma cedere su un certo numero di punti salienti delineerebbe due scenari oscuri: il primo, quello di una sconfitta nel 2012; il secondo quello della rinuncia al programma presentato in campagna elettorale non appena arrivati all’Eliseo. Una scelta, quest’ultima, che trasformerebbe i cinque anni di presidenza della Repubblica in una via Crucis.
De Profundis per il metodo comunitario
Bisogna innanzitutto certificare uno spiacevole atto di morte: il metodo comunitario sembra ormai essere diventato vestigia di un lontano passato. Il naufragio delle istituzioni europee nella crisi che stiamo attraversando è lampante. Né la Commissione, né il Parlamento europeo hanno saputo fare sentire la loro voce e ricoprire un loro ruolo in questa congiuntura tanto cruciale,. Tra, da un lato, un Barroso compassato nonché vivamente pregato di ricordarsi chi l’ha fatto re, il quale si destreggia a mantenere un silenzio dissimulatore che maschera difficilmente il sollievo per essere alleggerito di una zavorra troppo onerosa per lui, e, dall’altro lato, un Parlamento che non è mai stato dotato degli strumenti sufficienti a permettergli di esercitare il ruolo di portavoce dei cittadini europei, una “govenrance” propriamente europea della crisi si è rivelata impossibile. Tanto la natura ha orrore del vuoto che il metodo inter-statale ha ripreso il sopravvento; ma ormai non ci resta che constatarne le insufficienze. L’approccio dei nostri dirigenti attuali è totalmente privo del timone morale che permetterebbe una gestione efficace del disegno europeo, evocato che pure personalità, risorte dal passato, quali Helmut Schmidt, hanno recentemente richiamato. L’interesse comunitario era, per riprendere una terminologia del diritto privato romano, l’affectio societatis dell’Unione europea, ora sembra essersi diluito nella somma degli egoismi e dei calcoli a breve termine. Al gioco del diritto che componeva i rapporti intra-europei è succeduto l’impero della potenza, quello del direttorio franco-tedesco o, piuttosto, una parodia internazionale abbastanza brutta del “consolato” , avendo associato Mario Monti in qualità di rappresentante-espediente dell’Europa dei PIIGS.
Direttorio o Consolato? Le tribolazioni di Hic e Hoc
A tale proposito, di fronte alle immagini della conferenza stampa seguita a uno degli innumerevoli summit da ’”ultima spiaggia” che ha visto riuniti i componenti di questa troïka, non possiamo resistere alla tentazione di riesumare una famosa battuta di Talleyrand il quale con la consueta crudeltà, designava i tre consoli (della Rivoluzione Francese ndr) con l’espressione: Hic, Haec, Hoc (costui, costei, quel coso). Ai suoi occhi, solo Bonaparte meritava che gli venisse attribuita la qualifica virile hic a fronte delle sue spalle: a Cambacérès veniva infatti perfidamente attribuita la qualifica haec a causa delle sue preferenze sessuali e a Lebrun il neutro hoc in virtù della sua mancanza di carisma. Non vi è dubbio che, in questo nuovo consolato europeo, sia la haec Angela Merkel a dettare le regole. Il suo modo di martellare Hic-Sarkozy et Hoc-Monti sull’indipendenza della BCE la dice lunga sullo strettissimo margine di manovra lasciato dalla Signora Merkel ai suoi colleghi. Eppure sarebbe relativamente ingiusto addossare alla Germania l’intera responsabilità di un imperialismo cosciente o di un bismarckismo larvato. La realtà è al contempo più semplice e più seria: per quantola Germania, sotto la guida della Signora Merkel, eserciti la sua leadership, non per questo, sul lungo termine, difende gli interessi del proprio paese. Sottomessa alla miopia dell’ideologia monetarista delle élites economiche tedesche e guidata dal profondo trauma dell’iperinflazione della Repubblica di Weimar,la Signora Merkel, ormai, affronta la crisi con una serie di riflessi pavloviani che rievocano una versione storicizzata di quelle nevrosi somatiche delle quali il freudismo ci ha rivelato i segreti. Non è tanto la Germania a esprimersi attraverso la bocca della Signora Merkel quanto piuttosto un Super-io ideologico; e questo Super-io si svela al crocevia di due evoluzioni contemporanee egualmente inquietanti.
Dal Principe al Manager: Machiavelli gestore
La prima di queste evoluzioni è l’invasione, per non dire colonizzazione, riprendendo un termine di Jürgen Habermas, dell’ideologia imprenditoriale sull’insieme dei metodi organizzativi delle istituzioni. Questa tendenza si rivela decisiva nella progressiva identificazione degli enti pubblici con le imprese private di mercato e nell’applicazione di criteri simili ai rapporti economici. Le modalità di funzionamento delle agenzie di rating sono le prime rivelatrici di questo fenomeno, misurando la solvibilità e la performance dei suddetti enti alla luce di criteri d’indebitamento simili a quelli delle società. C’è di più: l’insieme dell’architettura delle finanze pubbliche ha subito questa distorsione. Se delle riforme erano necessarie, decidere di applicare una logica imprenditoriale su un piedestallo monetarista non poteva che sortire l’effetto di intaccare in profondità le pratiche dell’azione pubblica conferendo al modello imprenditoriale, non solo una superiorità, bensì un vero e proprio valore di esemplarità. Dieci anni fa, l’allora ministro delle finanze Francis Mer, sicuramente passato nel dimenticatoio, non si era autoproclamato salvatore dell’«Azienda Francia»? Concedendo agli enti pubblici delle modalità di finanziamento simili a quelle delle imprese e privando gli Stati della possibilità, in casi eccezionali, di rifinanziarsi presso una banca centrale, l’accecamento ideologico nonché il deficit di coraggio e volontà hanno ulteriormente rinforzato il potere illegittimo delle agenzie di rating sulle politiche pubbliche. In questo modo sono state confuse la riabilitazione dell’impresa come luogo di produzione delle ricchezze e la glorificazione del paradigma del «buon governo» sotto il monitoraggio della Revisione (Audit) e del Controllo interno delle istituzioni finanziarie. Si è continuato a confondere interesse pubblico e interesse finanziario, indebolendo il primo senza consolidare il secondo, a sua volta guidato da una concezione ristretta della razionalità delle scelte pubbliche la cui complessità supera quella degli agenti razionali della «favola» neoclassica.
Il potere, una macchina fiacca
La seconda evoluzione è, più precisamente, una trasformazione della nozione di potere e di cittadinanza in Europa attraverso la sostituzione del principio di “2buon governo” con quello di “buona governance”. Questo cambiamento di vocabolo non è insignificante e rivela due mutamenti profondi della concezione dei rapporti tra potere e cittadini in Europa, mutamenti sovradeterminati dall’oblio della nozione di popolo – demos – concepito come fondamento della democrazia. Quando Nicolas Sarkozy evoca la nozione di “sovranità molteplice” (sovranité à plusiers nel testo originale ndr) avremmo torto a sorridere come fanno i sovranisti o a sperare mellifluamente come fanno certi federalisti. Dobbiamo prendere seriamente questa espressione e interpretarla come una nozione di potere che, anzitutto, non corrisponde a un certo tipo di modo di relazionarsi con i cittadini, bensì, al contrario, a un flusso ugualmente ripartito tra diverse istanze che hanno come obiettivo garantire il funzionamento tecnico delle istituzioni.
Ci stiamo incamminando verso un’idea di Società che, mutuando una terminologia del sociologo americano Lewis Mumford, corrisponde alla Megamacchina concepita attorno a schemi razionali e funzionali scollati da qualsiasi finalità collettiva, nonché da qualunque tipo di narrazione fondatrice e strutturante. Trattasi di una macchina fiacca che, per vincolo di consenso, ha come unico obiettivo non quello della decisione politica bensì di garantire una continuità del funzionamento economico. Come il buon manager il quale fa in modo che la sua struttura funzioni anche senza di lui, il buon governante è colui che prepara la depoliticizzazione del potere e lascia che l’economia si diriga da sola, in virtù di un automatismo che presupponiamo essere benefico per la semplice ragione che è naturale. Il neoliberalismo non è altro che un taoismo economico, cantore del non agire come via d’accesso alla verità dei prezzi, dei salari, dei redditi, una via d’accesso al benessere.
La frase di Nicolas Sarkozy risuona quindi non tanto come una cantonata, ma come una confessione tanto più notevole quanto incosciente, un’illustrazione perfetta dell’astuzia della ragione storica in pieno svelamento. Hegel, a Iena, avrebbe esultato davanti alla propria finestra nel vedere sfilare il nostro nuovo Napoleone a cavallo. Il funzionamento degli ingranaggi di questa struttura, gli equilibri tra poteri e istituzioni si sostituiscono al primato del rapporto tra il demos e il Principe: il demos non è più la fonte e l’origine del potere, ma un ingranaggio fra tanti di un soft power diffuso, presente fino in periferia, ma mai localizzabile in un centro, di conseguenza tanto disincarnato e incontestabile quanto anonimo: un flusso smaterializzato.
La “sovranità molteplice” di cui il Presidente della Repubblica si fa forte, non è quindi né un federalismo né una sovranità, bensì l’immobilismo a grandi passi, una sorta di ibrido insoddisfacente, un prodotto politico di quello che B. Stiegler definisce la nostra Ultramodernità, un miscuglio di tecnicismo arrogante e d’impotenza mascherata.
Rifiutare l’elvetizzazione dell’Europa
Rimettere in piedi le istituzioni europee, rilegittimarle nel loro potere di proposta, sarà la difficile sfida che dovrà affrontare un nuovo presidente di sinistra. In un contesto particolarmente sfavorevole, bisognerà instancabilmente perorare la causa di un ritorno ai popoli europei in un processo di decisione più diretta e più rilevante. Consiglierei volentieri François Hollande di non appropriarsi delle oscure distinzioni ideologiche che, a sinistra, hanno scavato tante trincee e provocato tante ferite ancora aperte. Credo invece a una nuova forma di convergenza sulla questione dell’Europa mantenendo il fondamento di una vera alternativa economica e sociale al modello merkosysta. Eppure, questo denominatore comune non basterà fin tanto che le concezioni istituzionali saranno inconciliabili. È ormai giunto il momento di considerare che integrare meglio le rappresentanze nazionali nel processo europeo non significa rinunciare a un progresso federalista, bensì, al contrario, corrisponde alla vera vocazione dell’Europa. Quest’ultima non può diventare un sistema politico centralizzato di tipo neo-giacobino.
In compenso, è necessario riflettere a un progetto di riorganizzazione del Parlamento europeo di pari passo alla soluzione della questione di una fiscalità propria eretta con un voto concesso dai rappresentanti dei popoli europei, una ridefinizione dei poteri e delle iniziative tra Commissione, Consiglio e Parlamento. Questi cantieri di riflessione rappresentano degli elementi preliminari sulla via di un’auspicata riabilitazione dell’idea europea. Questa non deve più incancrenirsi per il deficit democratico delle recenti soluzioni proposte. Bisogna riconciliare l’Europa con i suoi cittadini che ne costituiscono, pur con le loro differenze, l’anima storica. Non bisogna più permettere a certi dirigenti di trasformare il progetto europeo in un impero anonimo e neutro, una sorta di Svizzera su scala mondiale alla quale avremmo, tra l’altro, sottratto il suo genio della democrazia diretta.
* Gazebos.it (8 febbraio 2012). Pubblichiamo la traduzione dell’articolo di Frédéric Menager, « Europe, empire anonyme…”, apparso, il 17 gennaio 2012, su Nonfiction.fr.